venerdì 25 novembre 2016

Nigeria, nel silenzio dei media continuano le persecuzioni dei cristiani

Nel silenzio dei media internazionali continuano gli assalti ai villaggi cristiani da parte di gruppi "peuls" mussulmani nello Stato di Kaduna. 34 le persone uccise, tra di loro anche donne e bambini.


Nei giorni scorsi un gruppo di circa 200 peuls musulmani ha attaccato alcuni villaggi cristiani in Nigeria, nella regione di Kauru, nel sud dello Stato di Kaduna. Nel mirino sono finiti, in particolare i villaggi di Kitakum, Kigam, Angwan Rimi, Angwan Mahaji ed Angwan Makera.

Gli assalti hanno provocato la morte di almeno 34 persone, tra cui uomini, donne e bambini. In alcuni casi è stato necessario un complesso e doloroso riconoscimento, essendo stati completamente sfigurati dalle fiamme. Circa cento abitazioni e numerose chiese sono state ridotte in cenere. Si stima che 4 mila residenti siano fuggiti a seguito della devastazione. Un distaccamento dell’esercito ha raggiunto il posto, ma troppo tardi, quando cioè il massacro era già stato sostanzialmente compiuto.

Gli assalitori sono giunti dalle colline a bordo di jeep sparando sulla gente con mitra e fucili, incendiando tutto quanto trovassero sulla loro strada

Zona in cui vivono i "peuls"
I peuls sono pastori e allevatori nomadi di etnia fulani, mussulmani che praticano la sharia islamica in modo integrale. Vivono tra la Nigeria del nord e il Niger e arrivano fino in Mauritania. Soprattutto nella Nigeria del nord si accaniscono contro le minoranze cristiane soprattutto per rubare bestiame. Sono ritenuti più pericolosi anche degli jihadisti di Boko Haram.

Secondo l’agenzia International Christian Concern, tra il gennaio 2013 ed il maggio 2016, nel corso dei loro raid, hanno ucciso già 826 cristiani, ne hanno feriti altri 878 e raso al suolo 102 chiese. Ciò che angoscia è che tutto questo avvenga nel silenzio generale dei media internazionali.

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giovedì 24 novembre 2016

Violenza Donne. Ennesimo femminicidio in Italia, sono 117 le donne uccise da inizio anno

Seveso, uccide la compagna strangolandola, i figli erano in casa. È solo l'ultimo episodio di altri 117 tremendamente simili avvenuti in Italia nel solo 2016.

Italia, una donna uccisa ogni tre giorni. Dal suo ex, da suo marito, dal suo fidanzato, dal suo compagno, da colui che avrebbe dovuto amarla

Seveso, ingresso dell'abitazione della donna uccisa
Ancora una volta raccontiamo un femminicidio, ancora una volta parliamo di una donna uccisa dall'uomo che avrebbe dovuto proteggerla per sempre. Siamo in provincia di Monza Brianza, a Seveso. Un uomo di 56 anni ha strangolato la compagna 29enne, al termine di una lite avvenuta nella loro casa di Seveso nella notte tra mercoledì e giovedì. La donna avrebbe cercato di difendersi dal gesto del suo compagno ma non ce l’avrebbe fatta. Pare, da quelle che sono le prime notizie sul caso, che in casa fossero presenti anche i figli della coppia.

Secondo la ricostruzione dei carabinieri di Seregno, intervenuti sul posto su segnalazione dei vicini di casa, la lite culminata in tragedia è avvenuta mentre i due bambini della coppia erano in casa. Stando a quanto emerso, la coppia, lui italiano e lei peruviana, da qualche tempo aveva problemi. Quando i carabinieri hanno bussato al loro appartamento, l’uomo stava tentando di nascondere il corpo della compagna dietro un mobile. I carabinieri lo hanno arrestato per omicidio in flagranza di reato.

I carabinieri, intervenuti prontamente sul posto, hanno poi provveduto a chiedere aiuto anche per i bambini, tre figli che frequentano le scuole elementari che sarebbero stati affidati, almeno per questa prima notte, a dei conoscenti di fiducia della coppia. Secondo le indiscrezioni emerse in queste ore, il 50enne avrebbe ucciso la sua compagna strangolandola a mani nude.

Solo gli esami autoptici potranno dare tutte le risposte del caso. Nel frattempo si cerca di capire se la donna in passato avesse già denunciato altri episodi di violenza, se i vicini che li avevano sentiti litigare fossero anche in passato stati testimoni di episodi simili.


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mercoledì 23 novembre 2016

L'Africa, i paradisi fiscali e la grande frode

Evasione fiscale, creazione di fondi illeciti, corruzione e riciclaggio di denaro, in Africa generano un “tesoretto” illegale di almeno 60 miliardi di dollari all'anno

Denaro che viene sistematicamente sottratto a progetti di sviluppo per la popolazione, aumentando le diseguaglianze. Il sistema è ingovernabile perché senza regole né trasparenza, ma c’è chi sta provando a mettere dittatori e politici corrotti sotto pressione.

"Vedere un dittatore atterrare a Ginevra potrebbe essere una buona cosa. Potrebbe (per esempio) significare che si tratti di un viaggio diplomatico per partecipare a dei colloqui di pace (la città ospita istituti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali). Ma la Svizzera è anche un paradiso sicuro per uomini potenti che arrivano dal terzo mondo e che vogliono mettere da parte i soldi che hanno rubato al proprio popolo"

È la considerazione fatta dal giornalista investigativo freelance svizzero François Pilet alla rivista statunitense Newsweek per spiegare lo scopo del suo progetto: il GVA Dictator Alert.

Si tratta di un Twitterbot che posta automaticamente un messaggio sul social network non appena l’aereo di un dittatore o del suo governo atterra o decolla dall'aeroporto di Ginevra. Pilet, assieme a suo cugino Julien, ha creato questo account Twitter lo scorso 16 aprile, allo scopo di monitorare i viaggi dei leader degli Stati definiti "regimi autoritari", dal Democracy Index 2015, per acquisire eventuali tracce di illeciti. L’idea è quella di rendere gli spostamenti dei dittatori "trasparenti" e dissuaderli da reati come l’evasione fiscale, la creazione di fondi illeciti, la corruzione o il riciclaggio di denaro.

Il progetto non è nato per caso. Julien è uno sviluppatore informatico e François, oltre a essere giornalista del magazine svizzero L'Hebdo, è membro dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), il collettivo internazionale che ha lavorato ai “Panama Papers

Il bot Twitter funziona grazie ad un’antenna sistemata vicino all'aeroporto, che riceve i segnali Ads-B, i quali trasmettono il codice identificativo e la localizzazione di ogni aereo. Un programma confronta quei dati con quelli raccolti da diversi database online che tracciano il traffico aereo nel mondo. Quando vi è una coincidenza fra il numero di coda di un volo e quello di un apparecchio utilizzato da un governo autoritario, allora viene postato un tweet con i dettagli del volo.


Uno strumento utile per l’indagine d’inchiesta, il cui account ha già riscosso successo con quasi 14 mila follower. Il bot al momento monitora e pubblica i movimenti di oltre 80 velivoli di 21 paesi diversi, tra cui Iran, Arabia Saudita, Qatar e Russia. Ma anche molti africani come l'Algeria, il Gabon e tanti altri.

Caso Obiang .. E proprio dall'Africa è partita l’idea. Pilet ha infatti deciso di lanciare il GVA Dictator Alert dopo che lo scorso marzo L'Hebdo ha pubblicato una sua inchiesta sui viaggi e gli affari finanziari in Svizzera dei membri del regime della Guinea Equatoriale. Paese guidato da Teodoro Obiang Nguema Mbasogo dal 1979 (è il presidente più longevo d’Africa).

Teodorin Nguema Obiang, Guinea Equatoriale
Segnalando i numerosi atterraggi degli aeromobili della Guinea Equatoriale all'aeroporto Cointrin (negli ultimi sei mesi 25 segnalazioni) Pilet ha fatto posare gli occhi della magistratura elvetica sul vicepresidente Teodorin Nguema Obiang, figlio di Teodoro. Fino a quando lo scorso 18 ottobre è stata aperta un'indagine preliminare a suo carico per i reati di riciclaggio di denaro, appropriazione indebita di fondi pubblici e corruzione, e la scorsa settimana è stato aperto ufficialmente un procedimento penale. Un buon risultato, dato che, contemporaneamente, su richiesta del pubblico ministero, gli sono state anche sequestrate 11 (undici) auto di lusso custodite nell'area di carico dell’aeroporto di Ginevra.

Il rampollo è già sotto inchiesta in Francia e Spagna per accuse simili ed è stato imputato anche negli Stati Uniti, dove ha patteggiato un risarcimento mai pagato. Sembra che dal 2004 la maggior parte della fortuna di Teodorin sia passata attraverso conti bancari svizzeri. Si parla di centinaia di milioni di dollari, che in buona parte sarebbero tangenti e denaro frodato allo Stato e alle imprese del suo paese.

L’erede di Teodoro non è da solo. L’inchiesta francese che lo riguarda, fa parte di un’ampia indagine avviata nel 2008 denominata "biens mal acquis" (guadagni illeciti). In essa sono coinvolti anche altri leader africani che, come lui, in passato avrebbero acquistato costose proprietà in Francia con soldi sottratti alle loro casse statali: il presidente della Repubblica del Congo, Denis Sassou Nguesso e l’ex presidente del Gabon, Omar Bongo, padre dell’attuale presidente Ali Bongo.

Swissleaks e Panama Papers .. Si commette un errore a ritenere che i paradisi fiscali siano esclusivo appannaggio di ricchi uomini dei paesi occidentali. In Africa se ne fa largo uso. Quelli sopracitati sono solo i casi più recenti e famosi di evasione fiscale, appropriazione indebita o riciclaggio in cui sono coinvolti potenti personaggi africani.

Nel febbraio 2015, per esempio, è stata pubblicata l’inchiesta giornalistica denominata “Swiss-leaks”, che riguardava la fuga di notizie sui conti di 100.000 clienti e 20.000 società offshore aperti nella filiale svizzera della banca britannica Hsbc (la famosa “lista Falciani) che ammontavano a più di 100 miliardi di euro. Il continente africano era molto presente nella lista. Sono stati trovati depositi sospetti collegabili ad operazioni di evasione fiscale, riciclaggio e traffico d’armi, materie prime e diamanti che riguardavano Tanzania, Kenya, Uganda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo e tanti altri.

Isaias Afewerki, dittattore dell'Eritrea
Alcuni di quei conti hanno anche generato molto scalpore. Per esempio quello dell’Eritrea il paese africano più presente nella lista. Su un unico conto, quasi certamente di proprietà dello stesso presidente eritreo Isaias Afewerki, si trovavano più di 695 milioni di dollari. Un affronto all'intelligenza umana se si pensa che i cittadini eritrei muoiono di fame e i maschi sono costretti a fare il servizio militare praticamente a vita, e per questo in massa fuggono per raggiungere l'Europa dopo viaggi allucinanti.

Tra i numerosi clienti stranieri che si nascondevano dietro lo schermo della banca Hsbc è spuntato fuori anche il re marocchino, Mohammed VI e la famiglia reale. Fece scandalo perché, per legge, a un cittadino residente in Marocco non è concesso aprire un conto corrente all'estero, salvo speciale deroga. Cosa che l’Ufficio dei Cambi marocchino non ha mai confermato.

Da non dimenticare poi, lo scandalo mondiale dei “Panama Papers” scoppiato lo scorso aprile. L’inchiesta riguardava documenti trapelati dallo studio legale panamense Mossack Fonseca che fa consulenze per aiutare ricchi clienti a usufruire dei vantaggi garantiti dal paradiso fiscale centroamericano. Anche qui sono emersi nomi di personalità e uomini d’affari africani. Molti i politici, come José Maria Botelho de Vasconcelos, l’attuale ministro angolano del petrolio, James Ibori, ex Governatore del Delta State in Nigeria o, Emmanuel Ndahiro, ex capo dell’intelligence rwandese ed ex consigliere per la sicurezza del presidente Paul Kagame. Ma anche parenti stretti dei leader, come Jaynet Kabila, sorella del presidente congolese Joseph Kabila, o la nipote del presidente sudafricano Jacob Zuma, Clive Khulubuse Zuma.

Dati dell’Africa frodata .. È appurato che meccanismi di elusione fiscale usati a livello globale sottraggano risorse al sistema dello Stato sociale. Nei paesi africani ciò equivale inevitabilmente alla privazione delle risorse necessarie a combattere povertà e analfabetismo diffusi.

C’è chi ha provato a quantificare. Secondo uno studio condotto nel 2015 da Gabriel Zucman, professore della London School of Economics, i paradisi fiscali detengono capitali illegali pari all’8% del patrimonio finanziario mondiale. Di tutta questa ricchezza esentasse, almeno 500 miliardi di dollari sono “africani

Un dato confermato anche dall’Oxfam in un suo recente rapporto, nel quale si afferma che il tesoretto illegale equivale al 30% del patrimonio degli africani ricchi

Una massa enorme di denaro pubblico che sarebbe sufficiente a coprire la spesa sanitaria per quattro milioni di bambini e assicurare l’istruzione primaria in tutto il continente

Ed è sempre del 2015 uno studio di una commissione dell’Unione Africana guidata dall’ex presidente sudafricano Tabo Mbeky, denominato “Illicit financial flows – Tuck it! Stop it! Get it!”, nel quale si apprende che i crimini finanziari, quali l’elusione delle tasse e la corruzione, drenano dal continente almeno 60 miliardi di dollari all'anno. Una grande frode.

Disuguaglianze

Diseguaglianza: Secondo l’ultimo rapporto Oxfam l’1% della popolazione mondiale possiede più del restante 99%. 62 persone nel mondo detengono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione globale (3,6 miliardi di persone). Nell’arco di 5 anni, questi ‘paperoni’ hanno visto crescere i loro patrimoni di 500 miliardi di dollari (+44%), arrivando a un totale di 1.760 miliardi. Le diseguaglianze crescono: nel 2010, erano 388 i miliardari i cui patrimoni valevano quanto quello di tutta la metà più povera del pianeta. Nel 2014, erano 80. Oggi, appunto, 62.

Ultimi paradisi assoluti: Secondo l’Ocse, restano 11 i paesi dove il segreto bancario è ancora invalicabile, la tassazione è inesistente. Brunei, Isole Marshall, isola di Dominica, Micronesia, Libano, Guatemala, Liberia, Panama, Isola di Nauru, Vanuatu, Trinidad e Tobago.

Wealth Manager: Una figura di consulenza in ascesa nel mondo della finanza “per ricchi”. Sono i gestori di grandi patrimoni. Questi professionisti (che di solito sono avvocati, commercialisti, fiscalisti o consulenti finanziari) aiutano i clienti a sottrarre “legalmente” ricchezze al fisco. Attraverso fondi fiduciari, società offshore e altri strumenti simili, “nascondono” grandi concentrazioni di potere economico rendendo difficile se non impossibile risalire ai veri detentori della ricchezza. Le loro attività sono formalmente legali ma socialmente illegittime.

Di recente è aumentato il loro interesse verso il mercato di clienti africano, proprio perché negli anni è cresciuto il numero di africani con almeno un milione di dollari di patrimonio investibile, i quali, secondo l'ultimo rapporto World Wealth Report, sarebbero 145 mila.


Certo, è essenziale perseguire chi viene “beccato, e ben vengano iniziative d’indagine come quella dei Pilet, ma la verità è che alla base del problema ci sono istituzioni come i nuovi wealth manager che facilitano la frode fiscale in tutto mondo. Un grande sistema che è ingovernabile perché senza regole né trasparenza, dal quale è nato un patrimonio transnazionale nascosto e facilmente trasferibile con un semplice clic da un paese offshore ad altri.
(fonti e dati Nigrizia)

I paradisi fiscali sono tra le principali cause di diseguaglianze nel mondo ed è su di essi che si dovrebbe intervenire con una normativa sovranazionale unica, più rigida e severa che li costringa alla trasparenza


Articolo a cura di
Maris Davis

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sabato 19 novembre 2016

Una Turchia sempre più islamizzata legittima lo "stupro" consenziente e le "spose bambine"

Turchia, proteste contro l'Akp di Erdogan per la norma che legittima le "spose bambine"

Arriva in Parlamento il disegno di legge che sospende i processi per chi, avendo abusato di una minore "consenziente", accetta le "nozze riparatorie". Protestano le opposizioni e le organizzazioni dei diritti umani.

Ragazzine costrette a sposare i loro stupratori se gli aggressori acconsentono al matrimonio per evitare il carcere. È rivolta adesso in Turchia sui social, e anche in Parlamento, sul nuovo disegno di legge che ha per oggetto le bambine minorenni. La proposta, presentata dall'Akp, il partito conservatore di ispirazione islamica del presidente Erdogan e che intende depenalizzare la violenza sessuale sui minori, se l'atto è avvenuto in modo "consensuale" e il suo autore accetta di sposare la vittima.

Il disegno di legge è stato presentato all'Assemblea di Ankara in questi giorni e sarà discusso la prossima settimana. Ma si è già diffusa nelle reti televisive la dura reazione da parte dell'opposizione, composta dal partito socialdemocratico e dalla compagine nazionalista. Sono i soli ora presenti attivamente in Parlamento, dopo che la formazione filo-curda del Partito democratico del popolo ha deciso di non partecipare più ai lavori dell'aula per protestare contro l'arresto dei suoi leader e dei sindaci di varie città nel Sud est dell'Anatolia.

Secondo diverse Organizzazioni non governative, la norma presentata dal Partito della Giustizia e dello sviluppo, fondato dal Capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, aggraverebbe ulteriormente il fenomeno delle "spose bambine", già piuttosto diffuso in Turchia.

La bufera non è solo in Parlamento, ma pure nell'opinione pubblica. E il disegno di legge, che punta a sospendere processi e condanne per abusi su minori avvenuti prima del 16 novembre 2016, sta scatenato proteste veementi. Su Twitter migliaia di utenti stanno condividendo in queste ore la loro indignazione con l'hashtag "lo stupro non può essere legittimato"

Il governo respinge però con forza le accuse, parlando di rozza distorsione, di un tentativo di affrontare le conseguenze legali dei matrimoni di minori. Il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, nega che il testo abbia a che fare con la legittimazione dello stupro, e aggiunge che i critici "distorcono" il caso di proposito. Per il responsabile della Giustizia il testo serve per aiutare le coppie che violano la legge perché hanno rapporti sessuali consenzienti sotto l'età del consenso e vogliono sposarsi. "Quando nasce un bambino da questa unione non ufficiale, il medico avvisa il procuratore e l'uomo viene mandato in prigione, causando difficoltà finanziarie alla madre e al bambino"

I matrimoni con minori sono "una triste realtà" in Turchia (circa 3.000 i casi nelle famiglie ogni anno), ma che gli uomini coinvolti "non sono considerati violentatori o aggressori sessuali". Già lo scorso luglio, prima del golpe fallito del giorno 15, la Corte Costituzionale turca aveva annullato una norma del codice penale che puniva come "abuso sessuale" qualunque atto sessuale che coinvolgesse un minore di 15 anni.

Chi si oppone ora a questa legge sostiene invece che il progetto, se approvato, permetterà di annullare le condanne di uomini colpevoli di violenze su una minorenne e, come si legge nella testo del disegno di legge, se l'atto è stato compiuto senza "uso della forza, minacce o altre restrizioni del consenso" e se l'aggressore "sposa la vittima"

"Erdogan sta portando la laica Turchia verso l'islamizzazione e sta facendo passare un testo che grazia coloro che sposano la bambina che hanno violentato"

E adesso su Twitter, l'hashtag #tecavuzmesrulastirilamaz ("lo stupro non può essere legittimato") è balzato in testa fra i preferiti in Turchia.
(La Repubblica)

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"No alle Spose Bambine e ai Matrimoni Combinati"
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venerdì 18 novembre 2016

Operazione "Black Axe" e la violenza della mafia nigeriana a Palermo. 17 arresti

Un nigeriano che non si voleva "affiliare" brutalizzato per una notte intera con un tubo di ferro. Donne stuprate perché non si volevano prostituire.

Quartiere Ballarò di Palermo
Operazione Black Axe. A Ballarò, un quartiere di Palermo, il cuore della mafia nigeriana, i retroscena raccontano che la "Cosa nostra africana è anche più violenta di quella palermitana". Diciassette i fermi, tra di loro anche una figura di spicco della mafia nigeriana in Italia. Il ruolo di "Bucha", il picchiatore.

Al momento i fermi risultano 17 (sedici uomini e una donna). Un'operazione a raggio nazionale, che è partita da Palermo. E quelli venuti a galla sono particolari raccapriccianti. Torture e violenze sessuali terribili ai danni di coloro che si rifiutavano di affiliarsi alla organizzazione mafiosa. Un uomo in particolare è stato violentato per una notte intera con un tubo di ferro. Violenze sessuali anche su alcune donne che "non volevano prostituirsi". I nigeriani finiti in manette controllavano infatti il mercato della prostituzione e lo spaccio di droga tra i loro connazionali a Palermo.

L'organizzazione garantiva il rispetto delle "regole" interne e la sicurezza dei suoi principali membri attraverso il suo braccio armato, "Bucha" o picchiatore. Se la struttura dell'organizzazione, gerarchicamente, ricordava quella di un "parastato", per contenuti e modalità di affiliazione, richiamava le tipiche forme delle organizzazioni criminali "italiche", con tanto di cerimonia di ingresso per gli associati.

"Una mafia a volte più violenta di quella palermitana", ha rivelato il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci. Sono stati ricostruiti diversi casi di violenza. Persone che non sottostavano alle regole di comportamento, per esempio chi non pagava le partite di droga, venivano 'punite' in modi severi e violenti.

La mafia palermitana "sopportava" l'organizzazione criminale dei "colleghi" nigeriani che operavano proprio nel cuore di Palermo, nel quartiere di Ballarò. "Cosa nostra ha consentito ai nigeriani di organizzare una struttura subalterna alla mafia. Loro erano tollerati a patto che non uscissero dal loro 'perimetro' di appartenenza"

Uno degli arrestati
Le indagini hanno accertato come l'organizzazione al suo interno riproducesse compiti, funzioni e persino organigrammi tipici di uno stato, tanto che per indicare le figure di vertice faceva riferimento al tipico formulario di cariche istituzionali (Ministro della Difesa e Consiglio dei Saggi). La "Black Axe" è un'organizzazione nigeriana criminale, sovranazionale e transnazionale, le sue ramificazioni si estendono nei singoli Stati, ove si trasformava in "Zone" e in singoli distretti cittadini, chiamati "Forum"

Le indagini della Mobile hanno fotografato la vitalità di numerosi "Forum" (distretti italiani), tra i quali si è distinto soprattutto quello di Palermo. Come ha spiegato il questore di Palermo Guido Longo. "Cosa nostra consente a questa organizzazione di sopravvivere nel territorio. E la mafia siciliana anzi, ne trae vantaggio. Si tratta di rapporti improntati sul 'do ut des'. Basta non superare certi limiti: questo succede anche altrove, basta non dimenticare la strage di Castelvolturno"

Tra i vari fermati anche il capo della base italiana dell'organizzazione, denominato "Head della Zone", prima carica formale dell'associazione nazionale, vertice supremo del gruppo, catturato a Padova, in costante contatto con il vertice nigeriano e con i membri più autorevoli delle altre articolazioni nazionali, europee e mondiali.

Un altro componente aveva assunto invece il ruolo di "Ministro della Difesa" dell'organizzazione, quarta carica principale a livello nazionale. Ruolo affidato a Kenneth Osahon Aghaku, di 22 anni, a lui era demandata la gestione delle punizioni dei disobbedienti ed il coordinamento di tutte le attività esecutive dell'organizzazione, quali, per esempio, la protezione dei membri, in costante contatto con il vertice della "zona" e con i membri di spicco dei vari "forum" italiani.

Si chiama Festus Pedro Erhonmosele, nigeriano di 36 anni, residente a Padova, tecnicamente ingegnere (laureato in Nigeria), formalmente commerciante di auto (con tanto di partita Iva), è lui il capo della cellula della Mafia Nigeriana operante in Italia e denominata "Black Axe"

Il 31 ottobre scorso una cinquantina di membri del suo clan si sono dati appuntamento in via Bernina 18 all’Arcella (Padova). Tutti pendevano dalle sue labbra. Lo chiamavano «Head» ed era ritenuto il vertice supremo del sodalizio in costante contatto con i capi nigeriani e con i membri più autorevoli delle altre articolazioni nazionali, europee e mondiali. Ieri mattina gli uomini della Squadra mobile di Padova sono andati a prenderlo nella sua abitazione. In tutto sono finite in galera 17 persone.

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lunedì 14 novembre 2016

Sicilia, le nigeriane costrette a prostituirsi si ribellano. 15 arresti

Dopo Palermo anche a Catania le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi si ribellano ai loro aguzzini per liberarsi dalla loro schiavitù. La Polizia di Stato ha scoperto il traffico di persone grazie all'operazione “Skin Trade


Dopo Palermo, Catania. Le ragazze nigeriane vittima della tratta e costrette alla prostituzione, si ribellano. Poca attenzione sul percorso travagliato e violento che le ha portate in Italia dal loro Paese d'origine. Contattavano le giovani ragazze in Nigeria e le trasportavano in Sicilia attraverso la Libia per "rivenderle al migliore offerente", e per questo 15 persone sono state arrestate.

Da Benin City, città nigeriana a poche centinaia di chilometri dal mare che bagna il golfo della Guinea, sono arrivate in Sicilia, via Kanu, Agades, Sabratha e Tripoli, come pacchi postali. Merce per fare soldi sui marciapiede.

I dati dell’Organizzazione intergovernativa sulle migrazioni (OIM) parlano chiaro:
  • 6.334 donne e ragazze nigeriane arrivate in Italia nel 2016, una su cinque è minorenne,
  • nel 2015 erano state 5.633, (1.022 delle quali minorenni),
  • 1.454 nel 2014,
  • 433 nel 2013,
  • un numero che cresce in modo esponenziale di anno in anno
Una crescita impressionante, un giro d'affari altrettanto impressionante, che ingrassa quanti in Nigeria individuavano giovani donne da destinare alla prostituzione. Le ragazze sono individuate, contattate, a loro è disegnato un futuro diverso, il sogno di una nuova vita.

Inizia il viaggio, grazie a dei personaggi chiamati “trolley”, che si occupano della "merce umana" dalla Nigeria sino ad un porto libico, molto spesso quello di Tripoli. Da qui, le ragazze vengono imbarcate in carette del mare per attraversare il Canale di Sicilia. Dagli schiavisti, le ragazze vengono sottoposte al rito woodoo per costringerle all'ubbidienza, alla schiavitù.

A Catania, una inchiesta ha portato all'arresto di 15 persone di nazionalità nigeriana, quattro sono irraggiungibili perché fuggite all'estero, con ogni probabilità rientrate in Nigeria.

Una lunga inchiesta, avviata nel 2013 ricostruendo il retroscena di una aggressione, vittima una ragazza nigeriana che si prostituiva lungo la Catania-Gela. Ad aggredirla era stata la sua mamam. Per liberarsi dalla schiavitù e dal marciapiede, la ragazza avrebbe dovuto restituire 40 mila euro ai suoi carcerieri.

Così sono state individuate due organizzazioni con ramificazioni anche a Caserta. Le indagini hanno permesso di individuare anche quattro "grossisti della tratta", due arabi, un ghanese e un nigeriano incaricati del soggiorno in Libia.

Quando le ragazze arrivavano in Italia, provate dal viaggio e dalla lunga e difficile attesa in Libia, dalla Sicilia partiva il "reclamo" degli schiavisti, che protestavano per la "merce avariata" (ragazze già violentate durante il viaggio o costrette a prostituirsi già in Libia). Un impianto criminale che ora, a Catania come a Palermo, mostra qualche crepa per il coraggio delle ragazze nigeriane, che sono anche scese in piazza, trovando molta solidarietà tra la popolazione.

I nigeriani arrestati
In sostanza gli imputati, tra cui ben 13 donne (le mamam), sono ritenuti responsabili, a vario titolo, dei delitti di associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone ai danni di giovanissime donne di nazionalità nigeriana, del delitto di tratta di esseri umani, con l’aggravante della trans-nazionalità, per aver reclutato, introdotto, trasportato e ospitato nel territorio dello Stato giovani donne nigeriane al fine di costringerle ad esercitare la prostituzione e del reato di sfruttamento della prostituzione.

In particolare la Squadra Mobile di Catania, in collaborazione con le Squadre Mobili di Napoli, Caserta, Padova e Palermo, ha arrestato 11 dei 15 imputati tra cui Tina Nosakhare, 28 anni, FabyOsagie Idehen, 23 anni, Cynthia Samuel, 34 anni, Chineyere Marvelous Uyor, 27 anni, Gift Akoro, 28 anni, Toyin Lokiki, 31 anni, Faith Otasowie, 30 anni, Beauty Aidiagbonya, 36 anni, David Ewere Omofomwan, 37 anni, Albert Agyapong, 30 anni, Irene Ebhodaghe, 44 anni.

Le vittime, tra cui vi erano anche minorenni, venivano “acquistate” dalle "mamam" presenti in Italia mentre si trovavano ancora in Libia e venivano sottoposte a riti woodoo che le avrebbero indotte a sottomettersi al volere delle loro mamam.

All'arrivo in Italia, le ragazze iniziavano un tirocinio con la propria mamam che impartiva loro le direttive necessarie per un proficuo esercizio delle prostituzione, venivano, pertanto, indottrinate quanto ad abiti ed accessori da indossare per rendersi più “appetibili” ai potenziali clienti, quanto a cifre da richiedere e a prestazioni da eseguire, ricevendo l’assegnazione di una "postazione" di lavoro su strada. Ognuna delle vittime avrebbe dovuto pagare, oltre a qualche decina di migliaia di euro per il "viaggio", anche l'affitto per la camera offerto dalla mamam (100-200 euro al mese) e quello per la "postazione" di lavoro in strada (altri 300-400 euro).

Le operazioni della Squadra Mobile della polizia di Stato hanno avuto inizio nel luglio del 2013 dopo una denuncia effettuata da una ragazza nigeriana che era stata più volte vittima di aggressioni.
(Fonte: NewsSicilia)

Operazione "Skin Trade 2" Intercettazione telefonica


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domenica 13 novembre 2016

Nigeria. Il racconto di quattro ragazze di Chibok sfuggite al rapimento

"Una terribile tragedia che non dimenticheremo"

Così Marta, una delle 276 ragazze rapite nel 2014 in Nigeria a Chibok dai jihadisti di Boko Haram. Alcune di loro sono riuscite a fuggire, altre nel tempo sono state rilasciate, di alcune non si sa più nulla. Quattro di queste ragazze oggi frequentano l'American University of Nigeria di Yola.

"Alcuni avevano vestiti e divise militari, altri il volto mascherato, tutti urlavano Allah Akbar, Allah è grande"

È così che Marta, Glory, Grace e Mary ricordano una delle tragedie recenti che ha sconvolto il mondo e che loro hanno vissuto in prima persona.

Le giovani hanno tutte un'età compresa dai 17 ai 19 anni e sono quattro studentesse nigeriane che oggi frequentano l'American University of Nigeria di Yola, ma fino alla notte del 14 aprile 2014 erano alunne della scuola secondaria di Chibok, dove il gruppo islamista Boko Haram ha fatto irruzione portando via con la forza 276 ragazze.

Loro quattro fanno parte delle 57 allieve che sono riuscite a scappare e a non finire prigioniere degli jihadisti nella foresta di Sambisa. Oggi hanno capelli pettinati e occhi truccati e quando parlano del loro presente lo fanno con entusiasmo. Raccontano di amare la loro università e confessano di volere diventare medici e avvocati ma poi, quando ritornano col pensiero alla notte del rapimento, ecco che una maschera di paura si impossessa di nuovo del loro volto.

"Sono arrivati di notte e all'improvviso. All'inizio dicevano di essere militari ed essere venuti a salvarci ma non era vero e ce ne siamo accorte subito. Hanno rapito le nostre compagne noi siamo riuscite a fuggire"

Non scendono nei dettagli, ogni passo nel ricordo significa incontrare di nuovo l'incubo. Ora sono entusiaste per la liberazione di 21 loro compagne ma non sanno nulla del destino delle altre. Pregano per loro e sperano di poterle abbracciare; ma c'è solo la speranza, e nessuna certezza.
(Radio Vaticana)


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Articolo di
Maris Davis

sabato 5 novembre 2016

Zuckerberg indagato in Germania, il suo Facebook incita all'odio

La Procura di Monaco di Baviera accusa i vertici del social network di non aver rimosso post con "istigazioni all'omicidio, minacce di violenza e negazione dell’olocausto"

Giornata nera per Zuckerberg. Mentre in Italia il Tribunale di Napoli ha stabilito che Facebook avrebbe dovuto rimuovere il filmato di Tiziana Cantone, la 31 enne napoletana che si è suicidata dopo che in rete erano circolati suoi video hard, in Germania il fondatore del social network è accusato di incitamento all’odio e negazione dell’Olocausto.

L’indagine della procura di Monaco, in Germania, riguarda oltre Zuckerberg, la direttrice operativa Sheryl Sandberg, il capo-lobbysta per l’Europa Richard Allan e la sua collega di Berlino Eva-Maria Kirschsieper. I vertici di Facebook sono accusati di incitamento all’odio per non avere rimosso dal social network post con minacce di morte e negazione dell'Olocausto. A rivelare il provvedimento della procura di Monaca è il settimanale tedesco «Der Spiege

Mark Zuckerberg
Da tempo il colosso, come altri big della Silicon Valley, è stato chiamato a rimuovere anche i contenuti dei gruppi terroristici, come Isis, Al Qaeda e altri gruppi islamici. Eppure in Germania, così come in altri paesi europei, Menlo Park viene accusata da più parti di non fare abbastanza per fermare l’hate speech (istigazione all'odio razziale)

In ottobre, dopo una serie di commenti violentissimi contro la politica delle porte aperte ai profughi siriani, Volker Kauder, membro chiave dello schieramento di Angela Merkel, ha proposto che le aziende del web vengano sanzionate nel caso in cui non intervengano tempestivamente nel rimuovere contenuti che incitano all'odio razziale.

Mentre su facebook proliferano, anche in Italia e non solo in Germania, gruppi e pagine che incitano all'odio razziale, all'intolleranza verso gli immigrati, e gruppi islamici palesemente integralisti, il mio profilo personale facebook solo quest'anno ha già subito tre blocchi di 30 giorni ciascuno (90 giorni in tutto) per alcuni post sull'Islam integralista di Boko Haram che nella mia Nigeria ha commesso ogni sorta di crimini.

Questa è la foto che mi fu "bannata"
da facebook, mentre i video hard
pubblicati nei gruppi non vengono cancellati
nemmeno se te lo chiede un giudice
Questo è facebook, tollerante in nome della libertà di espressione con i gruppi "forti" che magari portano denaro nelle sue casse attraverso pubblicità, visualizzazioni e traffico, e rigido con i "singoli" che osano parlare male dell'Islam perché un tale comportamento viola le sue "regole di condotta"

Questo è facebook che, nonostante le segnalazioni, non cancella video palesemente hard pubblicati all'insaputa della povera Tiziana Cantone, da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi amici, ed invece cancella alcune delle mie foto solo perché mi esce mezzo capezzolo dal vestito.

Di certo facebook ha le sue regole, le sue norme di condotta, e io non contesto questo, ma vorrei solo che quelle regole fossero applicate in modo equo per tutti. E non mi si venga a dire che in nome della libertà di pensiero si può anche "essere razzisti", "negare l'olocausto", "istigare all'omicidio", "minacciare", oppure fare propaganda per il "jihad"

Da quando il social network è stato quotato al "Nasdaq" di New York nel suo azionariato sono entrati alcuni fondi sovrani di paesi arabi, non vorrei mai che l'essere più "tollerante" verso gruppi dell'estremismo islamico e magari calcare la mano verso chi, come me, quell'Islam non piace, sia dovuto proprio ai quelle "quote islamiche" che ormai fanno parte del capitale sociale della Facebook Inc.

Ma magari il mio è solo un "perverso" retro-pensiero


Articolo di
Maris Davis

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